Più sfuggente all’altezza del cuore, che a quella del culo.
Più rapido in testa che all’alluce.
Più svelto in bocca che al ginocchio.
Il tempo scorre più veloce in alto che in basso. Anche a così brevi distanze. Lo dice la scienza, non è poesia.
Il tempo è liquido, mutevole. Zompetta allegramente su e giù. Destra e sinistra. Un po’ con le emozioni, un po’ con il dolore. Cristallizza le prime, esaspera il secondo.
Un vecchio orologio a cipolla ticchetta il tempo come cazzo gli pare.
Dà e toglie respiro. Dispone di noi con frivola andatura. Dinoccolato scivola nei nostri rituali e con un taglio secco “zak!”, ci costringe a ripartire dal via.
A volte invece si diverte ad incollarsi alle suole delle scarpe. Una zavorra bella e buona. Ogni secondo è un secolo, ogni istante uno scampolo di eternità. Ci stringe ai fianchi come in una nota di una fisarmonica. Lunga, dolente. Ci stritola in un devastante abbraccio, ci tira giù. Tic, Toc. Tic, Toc. Tic, Toc. Sempre più giù, e poi ci lascia andare.
Perché così gli pare. Perché così ci è dato.
Nessuno mai dovrebbe vivere conscio della misura del suo tempo. Non c’è conforto in quel preciso e ricorrente ticchettio. E neanche tasche per riportarlo su. Dove potrebbe correre, frenare, tagliare “zak zak” senza un domani. Restituire quiete alla rassegnazione.
Ma lui che cazzo se ne frega. E’ il tempo, tutt’altro rispetto a un buon amico.
Tic Toc, Tic Toc, Tic Toc…